Voglia di volare
Da bambino tutte le volte che udivo il rumore di un aereo, non riuscivo a trattenermi dal correre all’aperto, dal puntare gli occhi al cielo per avvistarlo.
Dall’interno della casa mi gridava la nonna: – Vat a logher suclon che sit-vèden it mitraglien-.
Il rombo dei motori, giungeva in anticipo rispetto all’aereo, perciò avevo tutto il tempo di pensare e fantasticare di trovarmi un giorno adulto, ai comandi di un aeroplano vero. Correvano gli anni 44-45 eravamo in piena seconda guerra mondiale e il mio pensiero fisso mi creava non pochi rischi, soprattutto quello d’essere avvistato dal piccolo monomotore militare continuamente in volo di ricognizione e preso di mira come bersaglio. Io mi sdraiavo nei fossi ai lati della carraia con la faccia in su e mi chiedevo: come fa a stare su un aereo? Come mai un’elica che gira lo fa volare così veloce? Interrogativi senza risposta, perché rivolti a me stesso, ma anche se li avessi rivolti a qualche amico non avrei avuto la risposta che cercavo; a quei tempi noi ragazzi eravamo convinti addirittura d’essere nati dentro ad un cavolo, figuriamoci!
Finalmente arrivò il tanto sospirato giorno e mi sedetti al posto di pilotaggio di un aereo scuola in tandem con l’istruttore per le prime nozioni di volo. Le sorprese non tardarono a presentarsi. Primo, ero mancino, secondo, non conoscevo una parola d’Inglese che è la sola lingua usata in aeronautica in tutto il mondo per trasmettere via radio. Feci ritorno a casa un po’ deluso; mia madre mi guardò negli occhi e mi disse: -Sat tin colp, at ghe la testa bona, tegh la chev-. Mi convinse e il giorno dopo ero di nuovo seduto pronto per iniziare il briefing.
Staccarsi dal suolo dolcemente, dopo una corsa sulla pista di decollo, poi salire lentamente preceduti o seguiti dall’ombra dell’aereo, vederla rimpicciolirsi gradatamente fino a diventare un puntino scuro al suolo, al disotto di noi, man mano che si va in quota; l’emozione è fortissima e non credo che vi siano parole per descriverla. Più si sale più si ha la sensazione che diminuisca la velocità, e un senso di libertà ti avvolge e coinvolge; tu, solo con l’aeroplano in mezzo a niente sospeso nell’aria dove non esistono distanze, dove non vedi la linea dell’orizzonte. Continuando a salire è come se le città e i paesi si avvicinassero sempre più tra loro, ma con l’altezza cresce anche la presunzione di diventare sempre più padroni dello spazio sottostante e si avverte un senso d’onnipotenza.
Ai doppi comandi il mio istruttore non rideva mai, non era mai soddisfatto di quello che dimostravo d’aver imparato, voleva sempre di più. Quando si è in quota, sia per le repentine variazioni di pressione atmosferica, sia per la preoccupazione che ti tiene attento al controllo degli strumenti, sia perché la ghiandola ipofisica è un po’ più lenta a stabilizzare l’equilibrio, spesso tre più tre non fa sei, e la risposta giusta arriva con ritardo, non è mai immediata.
Ho anche pianto qualche volta e quando scendevo a terra, finito il volo, giuravo di smettere, di rinunciare definitivamente, poi durante la notte pensavo: è mai possibile che non se ne sia accorto quell’orso che qualcosa l’ho imparato? Domani ci ritornerò per fare l’ultimo tentativo, dicevo, ma succedeva sempre la stessa cosa. Un giorno litigammo violentemente durante il volo, poi atterraggio d’emergenza, raggiunta la pista, scese dall’aereo sbattè la portiera sgarbatamente poi disse: -Se sei proprio così bravo come credi d’essere è giunto il momento di dimostrarmelo, vai-.Non me lo feci ripetere una seconda volta, dopo aver effettuato i controlli d’obbligo, ricevuta l’autorizzazione dalla torre di controllo decollai, feci due giri d’ambientamento intorno al campo, poi girai con la prua fino a raggiungere la direzione nord indicatami dall’ago della bussola e proseguii in quella direzione a mille piedi d’altezza badando bene di rispettare i dati della notifica di volo. Cercavo di non commettere nessuno degli errori che solitamente l’istruttore m’imputava; ero talmente abituato a sentire quel brontolone alle costole, che subito non mi resi conto che stavo volando da solo, ma continuavo a sentire internamente la sua voce. Guardai l’orologio; dal momento del decollo erano trascorsi dieci minuti esatti, anche se mi sembrava un secolo, “decisi di ritornare e ad alta voce ripetèi a me stesso: devo invertire la rotta di centottanta gradi, dirigere la prua verso sud, mantenendo la stessa velocità, e fra dieci minuti esatti mi ritroverò sul punto di partenza.”
In vista del campo chiesi l’autorizzazione ad entrare nel circuito in sottovento per proseguire fino al punto chiave per la virata finale e l’atterraggio. Trattenei il fiato e come sentii il pattinamento delle ruote sulla pista, mi venne spontaneo un lungo sospiro, e uno iahoo di gioia. Conclusi così, felicemente il primo volo della mia vita, io da solo padrone del cielo e del mio aereo.
Il brindisi era d’obbligo, per le matricole dopo il primo decollo. Nella sala tutto era pronto a mia insaputa, entrai e un potente unanime coro intonò un gheregheghez (una specie d’ip ip hurrà riservato ai piloti) ripetuto tre volte, dopo di che il grintoso e burbero istruttore si avvicinò, mi abbracciò forte, poi disse: “Benvenuto tra tutti noi”; e commosso mi confessò, ” Mi piangeva il cuore tutte le volte che dovevo rimproverarti, ma era e rimane il solo modo che conosco per formare dei piloti veri”.
Tutti assieme poi col calice innalzato ripetemmo il monologo Dannunziano: “Chi vola vale, chi non vale non vola, ma chi vale e non vola è un vile” (l’ultima frase è riferita ai piloti che non frequentano, o, volano raramente) .
In seguito perfezionai il mio brevetto conseguendo il secondo grado e con tale licenza mi fu possibile volare con dei passeggeri. La prima passeggera fu proprio la mia sposa. In quella circostanza fummo presi da una tale commozione che ci abbracciammo piangendo, quello non era affatto un volo come i tanti che abbiamo fatto con la fantasia, come sì fa quando si è giovani e innamorati.
Tra le persone che hanno volato, persone d’ogni età, o estrazione sociale, si crea una specie di cameratismo che lascia un ricordo scolpito per sempre nella memoria.
Nonostante l’età ormai avanzata di tanto in tanto ritorno a fare qualche volo, per salutare gli amici che sono rimasti e per abbracciare il vecchio Maestro che ha ancora la grinta di chi la sa lunga su come si formano i piloti veri.
Sergio Subazzoli
Ai dòpi c-nand 18 ed Lui 2010
Per torner a voler m-sun sduu in areoplan cun l’istrutor dop trent’an.
Al sudor, ch’al pareva paghee, l’infumaneva al lenti di me ocialen
ch’am mèt per vèdregh dasven.
Al man eren frèdi, e da l’emosion am termeva al gambi, dal polpi fin ai galon.
In un bater d’occ, trent’an dòp s’è svegliee tot i ricord:
la vosz dal vèc istrutor ch’al ripeteva a ognun:-
la paura o l’emosioun, amarcmand d’an mostrerla a nison,
perché l’è contagiosa in tèra e in aria, c’mè la malaria-.
Con al nov istrutor, seri precis e puntuel, an n’ho mei pensee-l mel.
Fat i contròi, alinee cun la pesta al m’ha dee ‘l-via, e in tri e du sinch, in n’atim sol è cumincee-l-vol
Sincsent pee , via i flap, un’ oceda-l motor al trim regolee, in man ‘l-volanten strichee ben.
Un penser fess l’um vriva sproner:-Sergio smòmiet, e dat da fer sat voo torner a voler!-
Un quert d’ora p’r’ander, eter tant per torner;
du tacingoo, da regolament al ters l’ateragg.
l’acareser d’la pesta l’è stee un miragg
Durant la not am sun insoniee ‘na tuta ch’ieva spianee,
color dal cel a l’oriszunt e un berten cun l’ongia dura tiree zo fin in frunt.
Quand la me bionda vers l’elba cun ‘na pataca l’ha m’ha sdesdee,
s’era apena ateree, spaesee, in n’areoport ch’an gh-sera mei stee.
L’è quand al cuntarò ai mee amigh ed man, se e no ich credran
che incoo in sol ‘na mesz’ora ho percors ben trent’an!
Grazie Sergio.
Leggere questi racconti, guardare queste fotografie mi ha riportato ai vecchi tempi. Ricordi meravigliosi. Ho rivisto tanti amici con i quali abbiamo condiviso momenti meravigliosi. Bulgarelli, Rubbiani, Copellini , compagni di momenti indimenticabili. Un ricordo particolare per la tua gentile e dolcissima Signora.
Grazie Sergio.