Il sole non si era eclissato del tutto alle spalle del Cimone come giocasse a nascondino, mentre il rossore dei suoi raggi accarezzava a perdita d’occhio le vallate circostanti quando percorrendo il fondo valle, raggiungemmo il Passo delle Radici, abbagliati dai molteplici colori caldi delle foglie e della flora autunnale in attesa del tocco del “grande maestro” per abbandonarsi all’ultimo valzer.
Le previsioni del tempo di quel primo giorno d’inverno sono state l’occasione di esaudire un sogno che aspettavamo da parecchio tempo. Con la mia compagna partimmo il pomeriggio stesso equipaggiati per ripararci dal freddo con nessuna preferenza sulla scelta in cui passare il fine settimana; doveva solo essere una località montana.
Il Passo delle Radici si trova ai confini della nostra Regione con la Toscana a un’altitudine di 1500 metri e là è stato eretto un Santuario alla memoria di S. Pellegrino e S. Bianco e costruito un interessante museo della civiltà contadina.
Un amico mi aveva confidato che da quelle parti, oltre a respirare l’atmosfera dei vecchi tempi, si mangia e si beve divinamente. Colpiti dall’inaspettata bellezza, non ci pensammo due volte e pernottammo nell’unico Albergo Ristorante costruito sulla linea di confine (ove si consuma in Toscana e si paga in Emilia).
Nuvole scure in avvicinamento da sud-ovest, penetravano con arroganza le gole, lasciando intravvedere la sommità delle vette che sembravano crostini di pane raffermo imbevuti nel caffè d’orzo come ci preparava la nonna Artemisia da piccoli.
Le nuvole minacciose continuavano a concentrarsi anticipando una notte senza luna, prima d’iniziare il banchetto, una voce da mezzo soprano dal cortile adiacente, alla maniera dei “Giullari di corte” (dalla tonalità s’immaginava che appartenesse alla pastorella un po’ panciuta. Era un uomo con un cappello grande frenato dalle orecchie e un bastone nodoso saldo sotto il mento), il quale annunciava l’imminenza di un’abbondante nevicata, in dialetto montanaro: Quand el nuvli e van a sira, tu la ròca e fila! Quando le nuvole vanno verso nord, prendi il filarino e fila. Significava che quella sera c’era tutto il tempo per godersi i piaceri della tavola.
La polenta era già rivoltata sul tagliere di faggio al centro della tavola. Ognuno dei commensali doveva tagliarne la propria fetta col filo di refe. Affiancato, un cesto di vimini con una “tera” corposa di pane di farro, in bella vista, con la crosta abbrustolita di color marrone che pian piano sfumava all’approssimarsi del taglio fatto a croce dall’omino tutta voce, sulla sommità per permetterne la lievitazione prima di sigillarlo nel forno a legna con l’apposito “ciondor”(coperchio)
Fu un peccato che il profumo di pane appena sfornato fosse coperto dall’aroma dello stufato di cinghiale, versato nei piatti che ormai saturava le narici, mentre l’acquolina in bocca inumidiva le labbra.
Tutto merito dell’abilità di Teresa, Teresina per i conoscenti, la nonnina cuoca a tempo pieno, col fazzoletto scuro in testa che le copriva la fronte e annodato dietro al pipol, mentre camminava in fretta a testa alta, per non inciampare. Infine un vinello in bottiglia, limpido color rosso rubino completava l’effetto dei colori delle cose apparecchiate sulla tovaglia colorata a fiori.
Improvvisamente, la tormenta, ha provocato l’interruzione della corrente elettrica. L’attento portavoce, ha ordinato di accendere le candele dando inizio alla cena nel modo più tradizionale e romantico.
Poco dopo il block out, si riaccesero le lampade, in aiuto al tremolio ancora incerto delle candele dava l’impressione di un risveglio. Dalla vetrata dell’enorme portone, come fosse preparato da uno scenografo, il faro del cortile illuminava migliaia di grandi fiocchi di neve appiccicarsi ai vetri scomparendo nel buio, dove la loro traiettoria faceva pensare che la forza di gravità si fosse inclinata. Folate di vento urlanti permutando d’intensità e direzione guidavano il nevischio trasformandolo in arabeschi, simili a branchi di colombe in cerca di riparo.
Quelli sono il momento che chiunque si lasci trasportare dalla fantasia, la novità diventa magia.
Mi resi conto del tempo trascorso a tavola, il momento in cui ho bevuto l’ultimo sorso di “bacco” fissando la bottiglia senza etichetta, con parecchie tracce opacizzanti di unto. Il giorno dopo dormii fino all’ora di pranzo. Alla sveglia, capii l’effetto provocato dal rosso rubino brillante.
La neve continuò a cadere interrottamente per tutta la giornata successiva, fino all’alba del nuovo dì. E’ stata l’occasione di ripetere, non so quante volte, con la mia compagna, prima di cedere al sonno lo stesso ritornello sull’emozione provata.
L’alba e il ciel sereno del mattino dopo, hanno mostrato ben presto il sorgere del sole che illuminava l’immenso tappeto bianco che copriva le magiche sfumature della flora addormentata.
I tornanti che riportano a valle erano fiancheggiati da argini di neve luccicante. Le tracce lasciate sulla neve dagli animali selvatici, sembravano linee di confini di territorio. I rumori erano assorbiti dal manto nevoso; non incrociammo nessuno durante la discesa, e, non essendo più abituati al silenzio, cominciavamo a preoccuparci.
E’ da quando ero piccolo che non udivo più la “voce del silenzio”. Per scaramanzia d’accordo con Carla improvvisammo una ragazzata; imitammo più di una volta l’ululato di Tarzan, e la fortuna volle che nessuno fosse in ascolto.
Scendendo, si assottigliava sempre più lo spessore di neve. I rumori si ripristinavano.
Poi…. tutto ritornò come sempre.